Maurizio Lauri


Intervista a Maurizio Lauri

La sua esperienza e i numerosi progetti promossi Le hanno permesso di conoscere a fondo i problemi e le potenzialità del settore artigiano. Quali sono le sue idee in merito e in che modo si potrebbe intervenire per migliorare la situazione?

Gli artigiani cominciano a rendersi conto che forse le vecchie dinamiche sono superate, il proprio atteggiamento, le proprie attrezzature, il proprio know-how è arretrato. Quindi c’è un senso di grande frustrazione, perché mancano gli strumenti per trovare le soluzioni alle nuove strategie di comunicazione e vendita, alla rivoluzione del mercato globale. Generalmente reagiscono ripiegando su sé stessi, cercando di non prendere più nessuno a lavorare, così la piccola azienda implode.

Anche perché oggi ci sono molte tecniche che potrebbero consentire una moltiplicazione dei prototipi, anche di tipo interdisciplinare, ad esempio la fabbricazione digitale, secondo me, potrebbe dare molte risposte ai problemi del mercato, ma è un qualcosa di incompreso e quindi osteggiato. Faccio un esempio pratico: sono stato interpellato recentemente su una serie di progetti sociali, quindi l’artigianato come soluzione ad alcune problematiche sia di tipo fisico ma anche di tipo relazionale, per persone che hanno perso improvvisamente la mobilità alle gambe, o persone ipovedenti, che non possono fruire dell’opera d’arte.

L’idea sarebbe quella di mettere l’artigianato al loro servizio, come un nuovo strumento di lettura dell’opera d’arte. L’artigiano realizzerebbe dei prototipi, magari interpretando alcune opere d’arte tridimensionalmente, che una volta realizzati potrebbero essere moltiplicati con la fabbricazione digitale, quindi aumentandone la scala o diminuendone la scala.

Quello che non viene compreso è che sarebbe sempre l’artigiano a comandare il processo. In questo le macchine sono formidabili, a quel punto io riduco la dimensione e ho un target di mercato, amplio la dimensione e ne ho un altro: diverso target, diversa funzione.

Meglio lavorare e innovare in laboratorio o maturare esperienze e nuove capacità con altri artigiani?

Io ricordo i primi anni in cui avevo un piccolo laboratorio tutto mio, sembrava di toccare il cielo con un dito, ma dopo qualche anno mi sono reso conto che se fuori era giorno o notte, se fuori pioveva o magari c’era fosse il sole che spaccava le pietre o se era il giorno di Natale piuttosto che ferragosto, io non me ne accorgevo, perché ero chiuso all’interno di una struttura.

La scuola in questo senso mi ha aiutato molto per quello che riguarda la relazione e quindi la scoperta delle cose. Sono figlio di un impiegato, quindi non avendo avuto qualcuno in famiglia ad insegnarmi le cose, me lo sono dovute guadagnare e acquisire sul campo attraverso una naturale curiosità che ancora oggi conservo.

La scuola è stata fondamentale, io poi mi sento un operatore didattico che dopo tanti anni forse si può permettere di fare un po’ il direttore e un po’ il coordinatore di una serie di progetti  grazie ad un’esperienza progettuale maturata, ad esempio, attraverso il Fondo Sociale Europeo.

Quali sono i fattori che, secondo lei, hanno portato alla crisi del settore?

Che cosa ha determinato la nostra crisi professionale? Da una parte l’industrializzazione, quindi l’oro per tutti, che deve costare di meno in modo da vendere di più. Ma allora chi compra le nostre creazioni? Il nostro è un lavoro superfluo, inutile, creiamo oggetti per la vanità, e se una cosa inutile non è bella di quali eccellenze possiamo parlare?

Quindi se la qualità scende, nessuno compra più quei prodotti. Tu devi lavorare con uno standard minimo di qualità ben chiaro, ma per mantenerti su quella qualità ti occorrono l’esperienza, il know-how, l’organizzazione. Il punto è che c’è stato un errore strategico negli anni ’70. Faccio un esempio, la Unoaerre di Arezzo,  una delle principali aziende italiane del settore, ad un certo punto ha voluto specializzarsi nel matrimonio, di conseguenza ha cominciato a produrre fedi. Scelta condivisibile, ma non le puoi fare sempre più sottili al punto da renderle quasi invisibili. Questo abbassamento dei costi a tutti i costi ha determinato un impoverimento.

Faccio un altro esempio: Torre del Greco. Se penso a Torre del Greco penso al corallo. Mi viene subito in mente l’arte dei coralli, che è antichissima. Ho anche avuto la fortuna, negli anni ’80, di visitare cinque-sei maison di questi grandi artigiani, che realizzavano opere di una bellezza sconvolgente, che però oggi non c’è più. Cos’hanno fatto? Pure loro negli anni ’70 hanno cominciato a fare quegli oggettini con pochissimo oro intorno.

È andato bene all’inizio,ma dopo un paio d’anni la gente non ha più comprato quei prodotti. Nel frattempo hanno perso tutte le conoscenze che avevano maturato in 1000 anni di bottega. Perché quando all’interno di una bottega,  cambi la produzione per dieci, quindici anni e fai una cosa di qualità minore non è che le competenze rimangono necessariamente in eredità, perdi tutto.

Non ci sono più operai competenti, e fine della storia. Questo è successo nell’oreficeria. Ho sempre pensato che l’oreficeria in quanto legata al mondo della moda. La moda poi cos’ha fatto? Una cosa geniale, ha inventato le collezioni. Prima si cambiava ogni quattro, al massimo cinque anni, quand’ero ragazzino io ogni dieci, addirittura quindici anni. C’erano le mode. Poi nel tempo, negli anni ’70, poi negli ’80 queste tempistiche si sono ridotte sempre più. Oggi ci vestiamo per stagioni.

La moda questa cosa ha potuto farla essendo sempre capofila di un processo,  quindi orientando i gusti, perché è più semplice rispetto all’oreficeria. Tra un gioiello e un vestito c’è una differenza sotto il profilo temporale e di struttura fisica. Quindi loro hanno potuto accelerare le loro produzioni ed essere sempre contemporanei.

L’orafo è rimasto indietro e quindi si è operato uno scollamento. Se noi pensiamo a cinquanta, cento anni fa, o a duecento,o meglio ad un ritratto del Rinascimento, noi scopriamo che era tutto perfettamente riconoscibile, gli abiti, i gioielli, gli arredamenti: il gusto. Questa cosa è scomparsa,ora tutto deve essere fatto molto velocemente.

Come si approcciano le nuove generazioni all’oreficeria?

I giovani piuttosto che il gioiello usano qualcosa che ha la stessa funzione ma è fatto in modo molto naif ed estemporaneo. Usano il semplice tappino della Coca Cola, così addirittura le grandi case di abbigliamento sono passate a fare la gioielleria, oppure quelle dei profumi.

Però con i cosiddetti materiali alternativi, in acciaio, legno, plastiche aggiungendoci i costi per la pubblicità si nota che il prezzo totale è quasi uguale a quello dei gioielli in oro. L’artigiano che fa l’oggetto in oro poi trova una cliente che porta un oggetto in acciaio che si è rotto e vuole ripararlo. E allora vorrebbe rispondere “Vai dal fabbro, non venire qui”. Oggi il prodotto nasce per durare un tempo limitato e per essere gettato. Questa è l’altra criticità del nostro lavoro: il tempo.

Cosa significa per lei essere un orefice?

É successa una cosa molta carina all’inaugurazione della mostra alla scuola. Una mia allieva ha una bambina piccola che le ha fatto un ritratto. Sembra un lavoro di Mirò. Cos’ha fatto lei? Ha rifatto questo ciondolino a cera persa. È una cosa molto tenera, carina. Ha esposto nella vetrina il disegno della bambina con a fianco il ciondolino.

Questa è la rappresentazione del nostro lavoro, l’oreficeria nasce per questo. È un fatto sentimentale, per ricordare, attraverso una cosa preziosa, l’unicità del gesto nei riguardi della persona alla quale noi doniamo questo oggetto. È una comunicazione, un messaggio. L’oreficeria è questo.

La globalizzazione ha stravolto gusti e richieste, cosa occorre all’orafo di oggi per continuare a crescere professionalmente?

La clientela, quello è il grande problema di oggi. Come artigiano hai la necessità di imparare, per imparare hai necessità di qualcuno che ti commissioni i lavori, specialmente all’inizio. Più è ampio il numero della committenza, più è diversificata la richiesta, più impari. Più è alta la richiesta, maggiore è la qualità dell’oggetto che devi realizzare.

Fin dall’inizio della professione dell’artigiano c’è la ricerca della committenza, altrimenti tutto il processo è fine a sé stesso. Ho cercato di legare questa ricerca spasmodica di committenza al piacere personale della creazione, ho cercato innanzitutto di informarmi e poi di applicare le mie realizzazioni in due ambiti, quello museale e quello dell’arte sacra. Per una questione di devozione personale ho cominciato da ragazzo a fare le icone, ad esempio. Entrambi questi due filoni non ho fatto altro che portarli nella mia vita didattica, perciò ho fatto e faccio corsi di arredo liturgico, di merchandising museale, di oreficeria.

L’attività didattica non solo è servita a trasferire ad altri le mie competenze, ma anche ad organizzare dei progetti più articolati che come singolo artigiano non avrei mai potuto realizzare. È stata una specie di ping pong: la scuola mi ha portato alla professione, la professione alla scuola. Poi certamente, quello dell’arte sacra è stato un campo che è costato grandi sacrifici, ma che mi ha anche regalato le maggiori soddisfazioni. Nel senso che nell’arte e nell’artigianato vigono alcune regole, l’artista non è un uomo libero, è un servo del potere.

Che tipo di mercato deve affrontare oggigiorno un orafo?

Oggi chi vuole acquistare un oggetto di un certo tipo non va dall’artista, va dalla griffe. Al giorno d’oggi solo la chiesa concede possibilità agli artigiani, perché i ferri del mestieri sono sempre quelli, possono subire un condizionamento dell’influsso storico e politico del momento, arriva un papa più tradizionalista e si rifà a determinati modelli del passato, poi ne arriva un altro più moderno e sfronda alcuni dettagli, ma in sostanza gli archetipi rimangono quelli.

Oltretutto gli oggetti che realizzi per la chiesa non sono mai oggetti fini a se stessi, hanno una funzione, che è un’ulteriore complicazione: il progetto deve essere bello ma soprattutto funzionale e deve durare nel tempo. Inoltre essendo fatto con metalli preziosi devi riuscire ad economizzare al massimo, e per fare ciò devi avere una grande tecnica di base. É ancora un ambito nel quale la qualità viene richiesta e apprezzata. Perché è una forma di dialogo, l’oggetto che realizzi per la chiesa è un testimone, mette in contatto il fedele con Dio, per questo gli venivano riservate le lavorazioni migliori, non per demagogia. Inoltre c’è la questione della conoscenza del linguaggio, ci si confronta costantemente con grandi maestri del passato, e quindi la simbologia, i contenuti e i materiali che scegli devono creare un concerto, un’armonia riconosciuta dagli addetti ai lavori che sanno interpretare e sanno giudicare.

Questi lavori ti pongono al centro del mondo della chiesa, ma essere originali in senso assoluto quando non hai parametri è più facile rispetto a quando hai tanti esempi, per di più in uno spazio così piccolo come ad esempio quello di una ferula papale. Vedere accettato un proprio tentativo di innovare un oggetto millenario è motivo di enorme soddisfazione. Questo confronto è quello che ti spinge in ogni momento. Lavoriamo per crescere professionalmente e per guadagnare un’identità di cui andare orgogliosi.

Cos’è un grande orafo: artigiano o artista?

Uno dei nodi gordiani della vita di un artigiano è proprio questo. Deve considerarsi un artigiano di qualità o un artista mancato? Nell’oreficeria, ad esempio, si può citare Benvenuto Cellini, il primo a teorizzare e mettere per scritto moltissime tecniche artistiche. Cellini però è Cellini sia quando realizza la statua di Perseo, sia quando fa una saliera in oro. Perché se la statua in bronzo viene considerata un’opera d’arte, la saliera viene considerata un semplice lavoro artigianale? Per una considerazione brutalmente economica. In base alla classificazione dei materiali utilizzati, non alla forma o al contenuto delle realizzazioni. Non per le capacità tecniche o culturali di chi crea. Questo è il problema fondamentale, perché la parole hanno un grande peso, una enorme responsabilità, quella  di determinare il valore delle cose.

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