Claudio De Santis

Claudio De Santis è un doratore e restautore con un notevole bagaglio di esperienza e competenza alle spalle. Oggi ha trasferito il suo studio da Roma a Rieti per far fronte alle difficoltà che colpiscono purtoppo tutto il camparto dell’artigianato. Con tenacia e passione porta avanti la sua attività e nutre ancora molte speranze per il futuro.


Intervista a Claudio De Santis

Come nasce la tua attività?

Io sono nato in via Margutta e da ragazzo frequentavo tutte le botteghe che c’erano nella zona, a quell’epoca, 60 anni fa, erano molte. Lì mi è venuto quest’amore per l’arte, la passione, poi ho proseguito frequentando una bottega, ho dato una mano, ho studiato, ho fatto il liceo artistico, i primi due anni di architettura e poi piano piano mi sono intrufolato in questo mestiere. Ho aperto una bottega e sono 45 anni che faccio praticamente questo lavoro.

Cosa ti ha fatto appassionare al mestiere di doratore e restauratore?

Io sono un amante dell’arte, mi piace disegnare, mi piace creare oggetti, ho la passione. Vengo nella mia bottega anche il sabato e la domenica, mi piace proprio sentire gli oggetti al tatto. Ho una manualità abbastanza sviluppata. Ho anche visto all’opera i restauratori di mobili in via Margutta, la scuola di Angelino Rosa, del fratello, una grossa scuola di ebanisti. Però questo lavoro mi ha affascinato di più e sono andato avanti così. Poi ho coinvolto mio fratello, che mi ha seguito e ora ho un figlio di 42 anni che fa lo stesso lavoro. Loro vivono a Roma e portano avanti l’attività in via di Monserrato, a Campo de’ Fiori.

La tua famiglia non aveva un legame con quest’attività?

A dire la verità, no. È l’ambiente che mi ha influenzato.

Chi sono stati i tuoi maestri e quali segreti del mestiere hai acquisito?

I Ferzini e i Pastaseo, al centro erano quelli più conosciuti. In questo lavoro non è tanto il segreto, perché la tecnica è quella, il gesto si fa in un modo, si prepara il bolo, adesso si trova già liquido, già pronto, prima i materiali andavano grattati, impastati, era un lavoro molto lungo. Ora ci hanno un po’ agevolato le cose.

Con che cosa si preparava il bolo?

Il bolo è un materiale calcareo, c’è giallo e rosso in natura. Si grattava con la raspa e si formava la polvere, poi si impastava con un po’ d’acqua e alcol finché sotto alla spatola non sentivi più nessuna granulosità. Poi si metteva in un barattolo, si mescolava con l’acqua, si creava la densità di una pappetta semisolida e poi si aggiungeva un po’ di colla di coniglio. La densità si sentiva con la mano, perché si attaccava. Non doveva essere granulosa perché quando si dorava con l’acqua, la doratura a guazzo, si rigava tutto l’oro. Era una cosa che richiedeva del tempo, preparare il gesso, preparare il bolo, adesso l’hanno già fatto in pasta e tutto questo lavoro s’è perso, i giovani non lo conoscono.

Che cosa comporta non avere più queste competenze?

Comporta che i giovani non sanno il lavoro completo. Anche nell’affrontare un restauro, è diverso per ogni oggetto, io quando guardo una cosa già so quello che devo fare, ho tutti i procedimenti che mi girano in testa.

Ci descrivi i procedimenti che sono necessari nel tuo lavoro?

Si prepara la colla di coniglio con le lastre, si mettono a bagno in un litro d’acqua per 24 ore finché non si ammorbidiscono. Poi si scalda a bagno maria e si scioglie, poi si condensa e diventa come una gelatina. Si può usare anche la colla di pesce, nella doratura si mettono due gocce di colla di pesce o di coniglio e si fa la doratura a guazzo. Le terre, invece, vengono preparate impastandole con acqua e colla di coniglio che serve a dare consistenza. Alcune volte, un tempo usavamo sui colori la chiara dell’uovo che più o meno fa lo stesso lavoro. I colori con la chiara dell’uovo sono sempre più belli. Tutte queste cose però sono andate perse perché ci vuole un sacco di tempo e la gente non è disposta ad aspettare oppure hanno un costo. Io lavoro con gente da vent’anni che non mi chiede neanche il prezzo, c’è una fiducia ormai antica e sanno che io sono onesto e chiedo il dovuto e così era una volta. Adesso, invece, mi chiedono prima il prezzo.

La nuova committenza non ha più questo rapporto di fiducia e perché?

No, per carità, proprio il contrario. Secondo me è dovuto all’ignoranza relativa al tipo di lavoro, non tutti sanno le difficoltà, il tempo che ci è voluto per imparare questo mestiere, che poi non si finisce mai di imparare, fai sempre cose nuove, per me è sempre tutto una scoperta, ma la base c’è, la tecnica, i prodotti.

Quali prodotti e strumenti utilizzi?

Io uso quelli vecchi, ora nei grossi negozi hanno tutte cose nuove, tipo sverniciatori, aggreganti, perché la colla di coniglio essendo un prodotto animale si deteriora e ci sono delle sostanze che si aggiungono per mantenerla, però leva qualcosa alla consistenza, non è più morbida. Io vedo che tutti i restauratori usano questi prodotti nuovi che forse inquinano di meno. Uso gli stessi pennelli da trent’anni, perché prima erano fatti di peli di martora, erano morbidi, spessi, compatti. Adesso per poterci lavorare ne devo usare due o tre insieme sennò non c’è consistenza, sono spennacchiati. Il cuscino per dorare lo faccio da solo perché deve essere fatto in base alla misura del braccio.

Sembra che in qualche maniera oggi si cerchi di recuperare i prodotti del passato che hanno un grosso valore perché dietro c’è una competenza, una manualità, anche una qualità.

Anticamente una cornice costava più di un quadro anche se era fatto da Tiziano, da Raffaello, la cornice era più costosa. Dietro una cornice c’è un grossissimo lavoro. Lì c’era l’artista con una tela che dipingeva, aveva il suo badget, gli davano i viveri. Invece, per la cornice c’era l’architetto che la disegnava, il mastro falegname che andava a cercare il legno, una volta trovato il legno adatto andava con il disegno dell’architetto dall’intagliatore e da lì passava al doratore, c’era il battiloro coi martellini per battere l’oro, prima l’oro si batteva, si spianava. E quindi aveva un costo iperbolico, anche per la materia prima. Nessuno si rende conto che una cornice ha dietro uno studio particolare. La cornice veniva progettata per il soggetto del quadro. Le doratura sono state fatte dal ‘400 in poi, la pastiglia nasce circa a metà ‘400. La pastiglia era un calco di gesso che veniva usato per fare le cornici in serie. Prima era un lavoro molto importante. Se uno la richiede si fa anche una riproduzione con tutti i criteri di quelle antiche, con la differenza che il legno e l’oro sono nuovi.

Chi chiede lavorazioni di questo genere?

Più che altro antiquari che non trovano le cornici per i quadri. L’unica differenza è lo spessore dell’oro, perché nel ‘500 l’oro veniva battuto a mano, adesso 20 foglietti 8×8 non sono nemmeno mezzo grammo.

Secondo te che questa usanza di fare le cornici in oro si legava pure alla necessità di dare luce al quadro?

No, perché sui quadri scuri, i caravaggeschi, si montano quasi sempre cornici scure. Perché se mettiamo sul quadro scuro una cornice tutta dorata, l’occhio va solo sulla cornice e passa in secondo piano il dipinto. Devono sposarsi bene e formare un connubio. Infatti, molte volte se metti la cornice giusta, cambia tutto quanto. Chi si fida viene da me a chiedere consiglio su quale cornice adattare a un quadro e per fortuna ancora un po’ di gente che se ne intende e si fida c’è. Sono pochissime persone appassionate che comprano sempre quadri, si aggiornano, vengono a vedere.

Comprano di solito quadri di antiquariato o moderni?

Negli anni in cui aveva lo studio in piazza di Spagna e io in via Margutta, De Chirico comprava per i suoi quadri tutte cornici del ‘500 con un certo disegno di fogliame, tutte intagliata. A dire la verità, stavano bene, era un connubio azzeccato. Così come nell’arredamento, all’interno di una casa moderna. Un po’ di tempo fa avevo una cornice di 3×2 metri, tutta a fogliame, a cartoccio, del ‘700, una persona l’ha comprata e mi ha chiesto di portargliela a casa. La casa era stramoderna, aveva una parete bianca su cui ho attaccato la cornice senza quadro e senza specchio, come pezzo d’arredamento ed era bellissima, era veramente eccezionale.

La doratura non si applica solo alle cornici.

Va sulle poltrone, sulle specchiere, sui mobili, sui lampadari, sulle consolle. La doratura sta un po’ su tutto.

Il tuo mestiere è salvaguardato dalle istituzioni?

Oggi ci hanno penalizzato, perché non possiamo prendere un appalto dal Ministero o da una chiesa, bisogna frequentare una scuola, mentre a noi che lavoriamo da 60 anni non è permesso. Adesso i restauri vengono fatti dalle ditte edili che si occupano di tutto, fanno il tetto, i muri e i restauri interni, non possono chiamare me e chiamano i ragazzi appena diplomati. Mio figlio di 42 anni lavora con me da quando aveva 18 anni, ha una certa esperienza, ma non ha un attestato.

Quali sono oggi i problemi più grossi che si possono incontrare nella tua attività?

I problemi più grossi sono legati alla burocrazia. Inoltre, prima nelle botteghe c’erano sempre tre, quattro ragazzi, il ragazzo di bottega una volta puliva il banco, metteva a posto il bolo. Prima venivano le madri a chiedere di tenere i propri figli nella bottega nei mesi estivi per fare qualcosa, adesso non vedo più nessun ragazzo che sia interessato. A parte che il mio lavoro è poco pubblicizzato, è poco riconosciuto. Poi si sono improntati a farlo tutti, ma non è così semplice, perché se si rovinano delle opere non si possono più recuperare.

Attualmente è in vigore un programma che prevede l’alternanza scuola-lavoro. Questo strumento può essere a tuo avviso valido per rimettere in movimento queste attività di carattere artigianale?

Certo, io saranno vent’anni, trent’anni, che mi sto dando da fare per avere una scuola, però è troppo complicato. Un po’ di anni fa c’è mancato poco, al vicolo dei Venti avevo preso un palazzetto e avevo quasi fatto tutto con BIC Lazio, ma poi hanno preferito i computer alla mia scuola. Io volevo fare una scuola di doratura e di restauro. Avevo chiesto anche qui a Rieti, avevo parlato col sindaco, con la Fondazione Varrone, ma non sono riuscito a realizzare niente.

Secondo te quanti artigiani si sono spostati da Roma?

Da Roma se n’è andata parecchia gente dal centro, però si sono messi tutti a lavorare in cantina, sotto casa. Perché le tasse sono troppo alte, in questo negozio pago dai 2000 ai 3000 euro all’anno per l’immondizia.

Nella tua attività immagino che si debbano rispettare delle norme di sicurezza, questo comporta delle difficoltà?

No, perché io non uso molti materiali tossici. L’acetone evapora molto velocemente e in quel caso mi metto la mascherina. Tanti anni fa abbiamo respirato nelle botteghe questi acetoni.

Hai qualche episodio particolare da raccontare?

Io ho lavorato per il Museo di Roma, per Palazzo Braschi, ho avuto un po’ di discussioni, perché la Sovraintendenza non lavora sempre bene. A Palazzo Braschi mi avevano chiamato per restaurare le porte, per restaurare dei pezzi così grandi ci volevano tre, quattro ore. Ho fatto un preventivo di 160 milioni dell’epoca, ma l’hanno fatto fare a 80 milioni. Hanno dato una carteggiata, le hanno stuccate sopra e le hanno ridipinte tutte. Io avrei voluti denunciarli. Tanti anni fa l’architetto Cuore mi chiese degli oggetti da abbinare all’arredamento di una stanza di Palazzo Venezia e in quell’occasione ho visto che là dentro c’erano tantissimi mobili stipati che giacevano dimenticati, divani, poltrone che, invece, potevano essere restaurati. Perché non recuperarle queste cose? In Italia c’è troppo forse e l’artigiano che vuole lavorare bene adesso è in grosse difficoltà.

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