Daniele Ballanti, giovane continuatore dell’attività di Carlo D’Alessandri, suo nonno materno e socio fondatore insieme a Romeo Guarnieri della scuola-laboratorio al San Michele a Ripa Grande.
D’Alessandri nel 1962, dopo la chiusura forzata della bottega, proseguì il suo percorso inaugurando la Vetreria Ballanti, la cui storia continua ancora oggi con la dedizione e la passione del nipote Daniele.
Intervista a Daniele Ballanti
Raccontaci la parte della storia che riguarda la tua famiglia.
Mio nonno, Carlo D’Alessandri, è nato a Firenze nel 1898. Dopo essersi trasferito molto giovane a Roma, ha iniziato a lavorare nella bottega di Cesare Picchiarini, che era una bottega d’arte in cui si facevano vetrate artistiche.
Quindi, si è formato all’interno di questa bottega già da molto giovane. Io non ho molte notizie su questo periodo di formazione. Nel 1924, Cesare Picchiarini fa un accordo con il San Michele a Roma, istituto di previdenza e assistenza ai giovani, per aprire al suo interno una scuola della vetrata.
L’obiettivo quindi era quello di dare un’opportunità ai giovani ricoverati presso l’istituto, ragazzi orfani o con grosse difficoltà economiche, di trovare un posto in cui imparare un’arte, un lavoro.
Veniva data loro una paga, avevano così anche una piccola somma, che potevano utilizzare quando uscivano dalla scuola per iniziare eventualmente una loro attività. Cesare Picchiarini, direttore, fa gestire la scuola a Carlo D’Alessandri e Romeo Guarnieri. Quest’ultimo si occupava della parte ideativa e pittorica, l’altro della realizzazione tecnica.
Nel 1926 la scuola viene ampliata perché vengono assunti due maestri di disegno e due aiuto maestri tecnici e ci sono 16 alunni.
Poiché l’attività della scuola era quella di un laboratorio a tutti gli effetti, Picchiarini temendone la concorrenza, cercò di imporre un limite al tipo di realizzazioni vetrarie della scuola chiedendo che non vi si realizzassero vetrate artistiche. Voleva che nella scuola si fossero realizzate solo vetrate commerciali come quelle realizzate per Castel Sant’Angelo e per il Museo del Palazzo di Venezia. Erano vetrate tessute in piombo a rettangoli senza alcun accenno di decori. Questa restrizione diede origine a contrasti nella conduzione della scuola che nel 1928 portarono Picchiarini a lasciarne la direzione; tra i ricordi di famiglia conservo ancora delle lettere autografe di Picchiarini che evidenziano questi contrasti.
D’Alessandri e Guarnieri, in accordo con l’istituto San Michele assunsero la direzione e la dirigeranno dal 1928 al 1962, mantenendo l’impostazione iniziale datale da Picchiarini: gli allievi imparavano il mestiere realizzando opere commissionate alla scuola e il loro impegno veniva retribuito. C’è un elenco notevole di lavori eseguiti per gli edifici privati dei nuovi quartieri di Roma del periodo, come il Trieste, il Coppedé, ci furono anche commesse pubbliche come per il Ministero della Marina, con vetrate influenzate dal gusto fascista.
Che cosa succede fino al 1962 ?
Io credo che doveva essere molto bello lavorare nella scuola della vetrata del San Michele e penso che lo sarebbe anche adesso: una vita semplice, di due lavoratori, artisti-artigiani, che si incontravano tutti i giorni in quel posto e che avevano fatto della loro capacità uno strumento per insegnare, un impegno che aveva un’importante valenza dal punto di vista sociale ed un esperimento davvero interessante. Loro hanno continuato a soddisfare l’esigenza dei committenti, né più né meno. Mi ricordo mia madre che diceva che dopo la guerra mio nonno sarebbe potuto diventare molto ricco, abbandonando la vetrata artistica e mettendo le sue conoscenze in un’attività più commerciale: i vetri distrutti a Roma dai bombardamenti sarebbero stati una fonte di guadagno molto superiore che le vetrate artistiche.
Dopo il 1962 tuo nonno intraprende un suo percorso completamente autonomo e dove si trasferisce ?
Si trasferisce in via Galluzzi, che è proprio qui dietro, e da qui continua la sua attività.
Mio nonno, muore quando io avevo circa 5 anni, io ne ho un ricordo vago. Il laboratorio, che era destinato alla chiusura, viene mantenuto in vita da mio padre, Gianni Ballanti, che eredita la passione di mio nonno pur essendo solo suo genero. Mia madre lavorava alla Rai, mio padre aveva un impiego statale, la mia famiglia non aveva necessità di mantenere in vita la bottega, ma mio padre si è innamorato tanto di questa attività che è riuscito con grandi sforzi a mantenerla come tradizione di famiglia. Devo dire che lo ha fatto per pura passione e con spirito sempre molto attivo e dinamico trasferendo questo impulso poi a me.
In che anni hai cominciato a lavorarci ?
Dopo il liceo, nel 1989, ho iniziato a frequentare la Scuola delle Arti Ornamentali di San Giacomo, ho fatto il corso triennale di pittura e pure lì, io sono destinato a stare tra le cose antiche, tra i vari corsi che c’erano a disposizione ho scelto quello di Giovanni Arcangeli, un bravissimo pittore. Questo corso si svolgeva come nelle botteghe di una volta, per cui c’erano banchi e cavalletti su tutte le pareti, si andava e si lavorava, lui ogni tanto passava e dava qualche indicazione. Il corso si svolgeva nel pomeriggio e questo mi permetteva di poter stare anche a bottega.
Chi è stato il tuo insegnante per quanto riguarda le vetrate artistiche ?
Ho ricevuto molte informazioni anche indirettamente, da parte di mio nonno, attraverso la vita di famiglia che mi ha trasmesso molto dandomi anche sostegno economico con un’attività che aveva funzionato molto bene, ho ereditato materiali, disegni e molto hanno fatto anche i ricordi, ma molto l’ho imparato da una persona che era stata scelta da mio padre per stare nella bottega, un tecnico sopraffino che mi ha insegnato tutti i segreti del mestiere.
Questa persona aveva un legame con le precedenti esperienze della tua famiglia ?
No, era completamente estraneo, ma era un genio. Lui mi ha insegnato molto, più di mio padre, era un fabbro operaio dell’ATAC, si chiama Rocco, è ancora vivo e lo sento ogni tanto. Una persona semplice ma con un’intelligenza spiccata in grado di analizzare lo sviluppo di un lavoro tecnico da vari punti di vista, capacità necessaria per fare le vetrate artistiche e assolutamente una componente importante per garantire il risultato del lavoro.
Da lui, quindi, hai appreso la manualità, la capacità di operare e da lì sei partito con questa tua attività. Tu ti occupi del restauro dell’antico, ma sei proiettato anche verso il moderno.
Sì, perché tra l’altro nel 2002 ho fatto un corso triennale all’Istituto Quasar di progettazione d’interni, giardini e industrial design. Quella è stata proprio una mia esigenza; mi piace molto il vetro, però mi piacciono pure la plastica e il ferro. Il corso mi ha aperto tanto la mente. Il discorso delle vetrate mi interessa, ovviamente, e sto cercando di promuoverlo e accrescerlo anche con l’aiuto di mia sorella. Tuttavia, in questo momento sono in una fase di espansione.
Dieci giorni fa ho costituito una società che si chiama “You just design”, un nuovo tipo di attività che voglio intraprendere insieme ad altre tre persone, una di queste è una mia ex collega del Quasar, ed è un progetto che mi sta molto a cuore.
Qual è l’obiettivo di questa nuova società ?
È divertente, ma complicato. È un’idea che mi è venuta in mente un po’ di tempo fa ed è scaturita dal rapporto che ho sempre avuto con i clienti. Ho notato che ogni volta che realizzo un lavoro, alla fine il cliente ha sempre il desiderio di vedere riconosciuta una sua parte nella fase ideativa. Da questa intuizione è nato il progetto che si prefigge di coinvolgere i clienti nella fase ideativa del prodotto di design.
Io cercavo una strada nuova da percorrere e l’ho trovata guardando un filmato di un motivatore: lui diceva che un buon imprenditore deve riuscire ad annusare quali sono le esigenze profonde delle persone e quindi sull’onda di questo consiglio ho ideato questa cosa. “You just design” è al centro di una rete di parterner-ship, deve funzionare da centro di coordinamento.
Cosa pensi a proposito della tradizione e dell’innovazione nell’artigianato artistico ?
La cultura dei Maker è un po’ l’ossigeno che fa bruciare tutto. Il limite dei maker è che non hanno la competenza artigianale e quindi ci si riduce all’utilizzo di stampanti 3D, taglio laser, è tutto bellissimo, però ti manca la capacità di sentire sui polpastrelli se quella cosa c’è o non c’è.
La droga degli artigiani sono i materiali. Io, infatti, lavoro il vetro, un materiale che non mi piace, tranne in alcuni momenti, il vetro è nervoso, traditore, ti taglia, non ha odore. A me piace lavorare, infatti, anche il legno e il ferro per il piacere di lavorarli.
Ci sono comunque dei vetri che sono belli da vedere, io posseggo ancora certi opalescenti di mio nonno, delle lastre fatte negli anni ’30, che sono dei quadri, bellissime già da sole. La pittura sul vetro, per esempio, è bellissima.
Ci parli di questa tecnica della pittura sul vetro ?
La pittura può essere fatta con vari materiali e metodi, per esempio con gli ossidi di metallo in polvere che portando tutto ad una temperatura di circa 600 gradi si legano al vetro dove i colori restano eternamente imprigionati ed indelebili.
Può essere fatta con smalti e grisaglie, gli smalti servono colorare il vetro; le grisaglie, invece, sono utilizzate per disegnare o creare degli effetti di chiaroscuro. Ci sono varie colori e tonalità di grisaglie oltre il nero e il marrone. Sono polveri che vengono miscelate tra di loro in base a quello che si deve ottenere e poi impastate con grasso e trementina oppure con acqua. È una tecnica molto bella, molto divertente e la particolarità è che il chiaroscuro sulla vetrata in genere viene fatto non aggiungendo colore ma levandolo.
Quindi, se si fa una vetrata, una composizione, prima di tesserla con il piombo su tutte le tessere viene data una velatura uniforme di scuro, di grisaglia, che poi viene levata tamponando con vari tipi di pennelli per creare vari tipi di effetti e quindi creare la luce. Il chiaroscuro è, quindi, fatto per sottrazione. Una volta tutti questi procedimenti erano protetti dal segreto. Mio nonno, quando qualcuno entrava e lui stava lavorando smetteva di lavorare.
Chi lavorava a bottega doveva rubare con gli occhi. Io, invece, quando ho avuto dei collaboratori ho cercato di insegnare loro quanto più mi era possibile. Nonostante io sia felicissimo di aver conosciuto tanti vecchi artigiani, penso che possa nascere solo da nuova generazione di artigiani solo attraverso nuovi modi di collaborazione e scambio di competenze.
La richiesta della committenza di oggi è diversa da quella della bottega di tuo nonno ?
Intanto parliamo di una dimensione diversa dei committenti, perché appunto il lavoro che hanno svolto in quegli anni mio nonno e Romeo Guarnieri era in molta parte rivolto a committenti pubblici e istituti religiosi. In quegli anni la vetrata artistica ebbe una rinascita e una grande crescita. Negli anni precedenti poiché le tecniche pittoriche su vetro permettevano di ottenere degli effetti di pittura molto raffinata, la vetrata era relegata ad essere una forma, secondaria, di pittura, e questo non permetteva di sviluppare una ricerca formale e stilistica specifica.
Negli anni ’30, invece, ci fu una rinascita grazie a un gruppo di artisti molto importanti della scuola romana: Cambellotti, Bottazzi, Grassi, grandi decoratori e artisti. Quindi lo studio era articolato: c’era l’artista che faceva il cartone, il pittore che riproduceva fedelmente sul vetro e poi c’era la realizzazione. La vetrata in quegli anni era molto diffusa perché permetteva di decorare con il vetro e la decorazione dava pregio all’oggetto e la committenza era molto affascinata della vetrata dallo stile Liberty e dall’Art Nouveax che andavano a braccetto con la tecnica della vetrata. Attualmente ci sono molti più modi per decorare, anche il gusto architettonico è cambiato e mi sembra anche un po’ anacronistica, per certi aspetti, la vetrata tessuta a piombo in un edificio contemporaneo mentre all’epoca si legava bene al contesto del progetto.
Attualmente non c’è più accordo tra la vetrata e soprattutto l’arredamento. Recentemente mi hanno chiamato per il restauro delle vetrate di Palazzo Venezia, ma purtroppo ci si scontra con l’incapacità di capire. Sono vetrate a rettangoli, estremamente semplici, e di cui conservo il preventivo del 1926, periodo in cui D’Alessadri e Guarnieri operavano insieme al San Michele.
Sono stato chiamato casualmente e non perché sapessero che fossi il nipote di chi le aveva realizzate. Alla fine questo restauro non l’ho fatto perché mi chiedevano di fare una cosa quasi inutile. Avrei dovuto sostituire solo alcuni vetri rotti, quando in realtà tutte le vetrate erano strutturalmente a pezzi e rappresentavano anche un pericolo. Alla fine non l’ho fatto, ma per fortuna, perché sarei stato costretto ad eseguire un intervento fatto male, infatti su alcune cose mi sono opposto.