Riflessioni sul potenziale di cultura artigianale

Claudio Franchi

Il dibattito sui temi di cultura artigianale nel nostro tempo si rivelano sterili e retorici, da ogni dove si leva il grido di dolore per la graduale scomparsa dell’artigianato di pregio e per la conseguente perdita dei saperi.

Si invocano i termini altisonanti della “salvaguardia”, della “difesa”, della “valorizzazione dei  mestieri dell’artigianato, per poi rimanere vuoti e privi di applicazione.

Sarà bene, pertanto, cercare di tracciare le problematiche di natura sociologica che sembrano impedire la concreta difesa e valorizzazione di questa specifica e unica qualità culturale e produttiva del nostro Paese.

E’ noto che una delle operazioni marketing di maggior successo della modernità, il Made in Italy, nasca dalla tradizione della bottega rinascimentale italiana e dalla capacità – unica nel suo genere – di produrre bellezza nei manufatti di pregio.

Dagli anni 50 del Novecento strutture produttive ad elevato valore manuale e culturale aggiunto hanno trasformato l’industria italiana, la cui preminenza veniva garantito dal riconoscimento e dalla richiesta a livello internazionale di prodotti italiani.

Questi prodotti erano la conseguenza dei Distretti artigianali italiani, organizzati in una filiera di piccole imprese agili e con grande capacità inventiva ed esecutiva in luoghi peculiari definiti “Botteghe”, ovvero spazi di sperimentazione e condivisioni eredità di una invenzione tipica italiana dell’epoca rinascimentale (si veda “La Produzione Industriale del Bello in Italia”, a cura di Andrea Saba e Claudio Franchi, Bologna, Art Servizi Editoriali 2011)

Gradualmente, a partire dalla fine degli anni 60 in poi, la linea della politica progressista ha decretato un cambiamento in due specifici e nodali settori della vita italiana: il primo nella scuola, dove si è pensato di facilitare la promozione, abbassando il livello delle difficoltà di apprendimento della conoscenza,  pensando che questo avrebbe democratizzato la scuola, intendendo la democratizzazione come accesso di massa. Si ottenne esattamente il risultato opposto, poiché l’unica risorsa che hanno i ceti di umili origini per andare avanti nella vita (quelli che generalmente avevano accesso alle attività artigianali), sono la conoscenza, l’istruzione e la cultura, e se tutto ciò gli viene gli viene tolto, la battaglia si svolge con armi che esse non hanno.

Il secondo settore interessato al depauperamento, quasi come naturale conseguenza dell’impoverimento della cultura della scuola (Luca Ricolfi, “La Società Signorile di massa”) ha interessato la  trasformazione del luogo “Bottega”, sino ad allora spazio di libera circolazione dei saperi ereditati in secoli di storia, mutato in luogo di mero lavoro, burocratizzandolo come fosse una grande impresa, regolata da leggi liberticide, una su tutte quella sull’apprendistato, un tempo attività di libero trasferimento da Maestro ad Allievo, così da appesantire e rendere insostenibile il processo di eredità delle conoscenze, decretando di fatto la graduale distruzione di tale tessuto produttivo.

Le fiorenti Botteghe che avevano contribuito al successo del Made in Italy conoscevano a quel punto non solo lo svilimento della naturale vocazione a trasmettere conoscenza, altresì subivano la concorrenza della nuova cultura progressista e mercatista nell’appoggiare la diffusione della grande distribuzione. Questa era resa possibile anche dal sottile gioco di demonizzazione progressista del concetto imprenditoriale, con l’aumento sempre più progressivo degli oneri burocratico-amministrativi  e di una pressione fiscale divenuta oggi insostenibile. Come contraltare delle strategie del lavoro prendeva forma una nuova classe di occupati nelle pubbliche amministrazioni, non solo spazio del lavoro improduttivo, ma ancor più crescente bacino elettorale.

Tale scenario ha provocato uno spostamento dal lavoro produttivo nazionale (industria e artigianato) al lavoro improduttivo (burocrazia amministrativa), oltre ad una schiera di attività para-schiavistiche che trovano il culmine nel nostro tempo con vere e proprie forme di sfruttamento digitale e con il fenomeno dei rider.

L’attuale modello socio economico italiano risulta così non sostenibile a causa di una stagnazione che vede l’Italia ferma nella sua capacità produttiva da oltre un ventennio, caso unico nello scacchiere dei Paesi democratico-occidentali, tanto da generare un elevato debito pubblico.

Per garantire l’enorme massa di debito dovremmo avere garanzie di capacità produttiva e al tempo stesso avremmo necessità di rafforzare il nostro export per equilibrare la quantità di ciò che importiamo (in primis l’energia).

Estratto da “Non ci conoscete. Artigiani in Rivolta, Biblioteka Edizioni 2015, a cura di Claudio Franchi (in vendita su Amazon)

In realtà la geografia del nostro Paese descrive una risibile parte di potenzialità produttiva chiamata a sostenere la maggioranza che non produce (pensionati, disoccupati e inoccupati) o definita lavoratori improduttivi (burocrati della pubblica amministrazione), cui paradossalmente proprio a questi ultimi tocca la responsabilità di bloccare la parte produttiva del Paese. L’Italia si presenta così come una nazione che invece di scegliere di progredire fa di tutto per condurre se stessa all’argentinizzazione (Luca Ricolfi).

Difficilmente può sfuggire a chiunque come in questo scenario le micro realtà produttive artigianali (un tempo definite “la spina dorsale del paese”) potrebbero giocare un ruolo decisivo per la rinascita economica italiana, se solo venissero riconosciute concretamente dalla politica che le ha scientemente distrutte.

Rimane pertanto da chiedersi: perché la politica fatica a comprendere come proprio queste realtà vadano liberate dai legacci che impediscono loro di contribuire al benessere italiano, come avvenne negli anni 50 del Novecento?

Perché queste micro realtà continuano ad essere vessate da una tassazione insostenibile e da oneri burocratici che ne affossano le potenzialità, mettendole in una perdita inevitabile di concorrenza con le multinazionali che invero hanno carichi di pressione fiscale irrisoria, grazie alla possibilità di emigrare in Paesi fiscalmente più accoglienti?

Perché viene impedito a queste attività il libero trasferimento di saperi in grado di perpetuare i fasti del ricco passato di memoria rinascimentale?

Ed è qui che merita di nascere un dibattito, poiché senza partire da questi equivoci storici, comprenderne il senso e tentare di correggerli, non ha nessun senso parlare di artigianato in un sistema paese che non rende da molti anni più conveniente essere artigiani.

Claudio Franchi

Artigiano orafo e argentiere, restauratore, designer, storico dell’arte

web site: FranchiArgentieri.it

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