Si cerca a volte una spinta propulsiva, che non sempre arriva, allo scrivere di un argomento che si sente necessario affrontare.
Ieri sera casualmente, in attesa della partenza del treno che doveva riportarmi a casa, avendo deciso di passare i quaranta minuti di attesa nella bella libreria presente nella stazione Termini di Roma curiosando tra gli scaffali del settore filosofia, cosa che faccio di sovente, ho preso tra le mani un libricino di cui mi ha incuriosito il titolo (quanto è importante dare il giusto nome alle cose!): “Creazione e anarchia”, l’ho tratto dai libri in fila e ne ho letto la copertina: Giorgio Agamben (autore), “Creazione e anarchia“(titolo), “L’opera nell’età della religione capitalista“ (sottotitolo), Piccola Biblioteca – Neri Pozza (edizioni).
Il sottotitolo mi ha immediatamente catturato, quindi ho cominciato a sfogliare il libro (cosa che non si può fare negli acquisti on Line), leggendo prima sul ripiego della terza di copertina otto efficacissime righe di presentazione dell’autore ed il prezzo (onesto), poi sulla quarta una breve (poco più di mezza pagina) culturalmente densa e stimolante nota di sintesi, che è stata l’invito ad aprire la prima pagina.
Non ho trovato introduzione né ringraziamenti e come diceva Nino Manfredi: #…e m’accompagno da me; così ha fatto l’autore, il suo sapere e una penna e… in cinque capitoli–saggi, ha tracciato un sentiero nella boscaglia di pensieri e supposizioni, del ruolo della creatività umana ed in particolare di quella che ha dato origine alle città di uomini e manufatti nella cultura occidentale, su cui da tempo mi ritrovo a ragionare in circolo, senza uscirne fuori.
Il primo capitolo-saggio, Archeologia dell’opera d’arte, l’ho letto lì per lì, nell’attesa della partenza del treno, in piedi tra le scaffalature; ho attaccato anche il secondo ma arrivato a pagina 18 mi sono reso conto che mancavano pochi minuti alla partenza del treno, così sono andato alla cassa e poi a passo svelto al binario. Il resto l’ho continuato a leggere in treno e, dopo aver cenato, a letto finché c’è l’ho fatta, il resto oggi e proprio le prime pagina del primo capitolo mi hanno fornito la spinta di cui ho scritto all’inizio.
Bene ora entro nell’argomento vero di questa riflessione.
L’autore proprio alla prima pagina riporta il pensiero del filosofo, alto funzionario dell’Europa nascente, Alexandre Kojève, sosteneva che “l’Homo Sapiens era ormai giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a se che due possibilità: l’accesso ad un animalità post-storica (incarnata dall’American Way of life) o lo snobismo (incarnato dai Giapponesi, che continuavano a celebrare le loro cerimonie del tè, svuotate però da ogni significato storico). Tra un’America integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a patto di rinunciare ad ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe fornire l’alternativa di una cultura che resta umana e vitale anche dopo la fine della storia, perché è capace di confrontarsi con la sua propria storia nella sua totalità e di attingere da questo confronto ad una nuova vita.”
Ecco questa riflessione, che riempiva e ancora riempie le speranze di molti Europeisti, che come me sono convinti che un ruolo culturale europeo trainante di un nuovo umanesimo sia la forza maggiore per portare il mondo fuori dalla confusione e dal sollazzo dei pochissimi a discapito dei moltissimi, mi induce a sottolineare l’importanza della matrice culturale, che dà origine alle nostre città in opere, arti e forma, generata dal pensare filosofico greco antico per la città democratica.
Se anticamente, ma non troppo, la città parlava di se attraverso forme simboliche, manufatti iconici, spazi sociali, aree tematiche, oggi le nostre città comunicano non più se stesse e la propria umana ragione d’essere nella forma di paesaggio culturale che possiedono, ma solo sempre e noiosamente di un modello a cui i pochi che sollazzano, vogliono condizionarle ad essere unica espressione, non più luoghi ma unico super ambiente di consumo, quanto cioè Alexandre Kojève aveva identificato come “ animalità post-storica” incarnata nella American way of life.
Si può invertire la rotta? Si possono far tornare le nostre città ad essere specchi che riflettono la loro cultura, cioè ciò che hanno prodotto per la bellezza? Si può sovvertire la rianimalizzazione post-storica e trasformarla in un nuovo umanesimo?
E’ la sfida che nel nostro piccolo ed ininfluente spazio di comunicazione vogliamo proporre di intraprendere a tutti coloro che in questi anni ci hanno seguito e forse apprezzato, non per le nostre persone, ma per quello che ci ripromettiamo di fare.
E’ questo un impegno ad impegnarvi ad essere portatori di un nuovo virus, un virus benefico che attacchi la rianimalizzazione post-storica e faccia prosperare i frutti di un nuovo umanesimo.
Incominceremo a parlare di questo raccontando della città che si racconta e immaginandola nella veste della città umana intelligente.
Diremo di Roma, non perché l’abbiamo in fissa, ma perché è Roma e, come si racconta, sarà la spinta propulsiva per una prossima incursione nel campo nemico.
Dionisio Mariano Magni, presidente di FaròArte e del Comitato Promotore per il #MadeinRome