Lorenza De Simone

Lorenza De Simone è nata in Liguria, ma ha anche origini toscane e vive a Rocca di Papa da 18 anni, Lorenza è un’artigiana sui generis, “una narratrice tessile” che definisce il telaio il suo strumento musicale.


Intervista a Lorenza De Simone

Ci puoi parlare delle tecniche che prediligi?

Le tecniche che fino adesso ho praticato e che amo sono prima di tutto la tessitura, anche se non è la prima alla quale mi sono avvicinata. Nasco in una zona dove la tessitura è stata una risorsa familiare, perché la mia bisnonna e la mia trisnonna sono nate in un territorio importante delle Alpi liguri, quello appunto dove si tessevano le tele, la mezza lana e il jeans veniva tessuto e tinto nella nostra provincia. Fino alla metà del ‘700, quasi inizio ‘800, si contavano 350 manifatture familiari in Val di Vara perse completamente. La maggior parte delle persone in zona non ricorda, nemmeno i discendenti ripetono questa storia. Alla passione più grande, la tessitura, ci sono arrivata con calma:  in casa nostra la nonna e la bisnonna erano ricamatrici, magliaie e sarte. Il mio avvicinarmi a queste tecniche è partito dalla maglia con la nonna piombinese, nei lunghi mesi estivi dalla Liguria alla Toscana. Ho iniziato a 3 anni a tenere in mano i ferri e a intrecciare i colori. Quindi la maglia è molto presente nei miei manufatti, poi l’uncinetto, il ricamo, il feltro, il patchwork, ma sempre per avere un’opportunità di mischiare e utilizzare i materiali che di volta in volta conosco e inizio ad amare. Già la presenza in casa di quei colori, di quei materiali a me fa star bene ed è quello che cerco di comunicare nei miei laboratori: il contatto, la conoscenza del materiale e quel minimo di tecnica che può essere utile per poterlo utilizzare e stare bene, perché lavorando con le mani si sta proprio bene. Si innesca proprio una curiosità, è una cosa molto affascinante, perché l’ho visto con i bambini, che hanno un avvicinamento e un contatto particolare con questi materiali e già si lanciano per poterli utilizzare, ispira proprio il lavoro il filo, perché comunica molte sensazioni. Ogni tanto lavoro, ma ogni tanto compongo semplicemente i colori per avere un’opportunità di benessere.

Trovi il benessere nel colore?

Il benessere per me è fondamentale. Il tramonto regala spesso delle pennellate interessanti che riproduco nei miei lavori.

Le tue radici quindi sono liguri.

Sì, sono tosco-ligure, spezzina, quindi l’ultima provincia. Però metà della mia famiglia è toscana, mio padre è nato a Livorno e tra tutti i figli, siamo sette, io sono quella che è stata di più con i nonni toscani, trascorrevo proprio i tre mesi estivi delle vacanze. Mi sento molto toscana.

L’interesse e l’origine del tuo lavoro sono legati alla Liguria?

Ad entrambi i territori, perché la nonna toscana era magliaia. Io sento molto il territorio con il mare, il mio nonno toscano era pescatore, quindi i suoi racconti, fare le buche per andare a recuperare i lombrichi di mare, mi sento molto di quel territorio. L’ho anche raccontato spesso nelle mie tele.

Il sistema della tessitura della rete quanto ha influito nella tua fascinazione, nell’idea di costruire qualcosa?

Pensare al tessere è stato un collegarmi con la parte antica ligure e il gesto del tessere è un gesto che mi ha sempre affascinato. Il primo incontro con la tessitura, tra l’altro, è stato in una colonia estiva in Toscana e lì ebbi, appunto, la prima esperienza tessile su un telaio chiodato molto semplice e mi è rimasta questa passione ma un laboratorio, un insegnante, anche se eravamo nei pieni anni ’70, sono del ’63, quindi avevo 10 anni quando ho fatto il mio primo pezzo tessuto. Poi casualmente, leggendo un’inserzione su Rakam, ho incontrato l’indirizzo della mia prima maestra di tessitura valbrembana e da allora non ho più smesso, dal ’97. Diciamo che distinguo un po’ le tecniche, quando devo raccontare è la tessitura l’attività che mi coinvolge, tra l’altro il mio telaio è primitivo, ma non mi è necessario un telaio a licci più evoluto, perché mi esprimo attraverso la tela. La tela è un tessuto particolare che concede anche delle imperfezioni, permette di essere letta e poi mi ci abbandono. Da quando ho iniziato a tessere con un telaio così comodo ho proprio smesso di suonare i miei strumenti, prima suonavo la chitarra classica e il flauto traverso. Il momento in cui mi siedo per me è come, credo, per un altro musicista, come se fossi al pianoforte, è uguale, non cambia proprio l’emozione. In quel momento sono più musicista che altro, infatti, le texture, i movimenti sono proprio quelli del musicista, né del pittore, né della tessitrice, neanche quelli dello scultore, è proprio un gesto musicale.

Quindi un gesto che ha un suo ritmo, un suo tempo…

Sì, sì. Poi il respiro, il gesto. Io, a volte, mi preparo i colori per realizzare un pezzo, poi a seconda di quello che sento, vivo un momento di astrazione. Lo vivo così fino in fondo, quando svolgo la mia tela, quando sgancio il subbio è un miracolo anche per me, non so mai quello che ho fatto precisamente, quindi è un momento proprio bello e intenso.

Quindi la tua produzione parte dal filato e arriva fino alla composizione di un abito.

Tele, non costruisco poi abiti, le mie tele rimangono così. Penso alla tela come a un oggetto che sia in grado di raccontare indipendentemente dalle mie parole, ognuno può interpretare. Spesso le persone si avvicinano a quello che io ho desiderato dire, a volte vedono altre cose e per me è anche lecito, ma le lascio così, spesso non le rifinisco, lascio le giunte in evidenza, a meno che non sia qualcosa che devo consegnare. Dedico molto tempo alla creazione degli scialli, perché trovo che sia quell’oggetto che racconta tantissimo la storia delle donne e penso che come lo scialle non la racconti neanche un monile. Ogni etnia ha un modo di indossarlo, che sia lungo, che sia corto, che sia vicino al collo, è un oggetto che veramente ci unisce tutte e spesso gli ho lasciato raccontare anche storie non proprio felici. È un oggetto che nasceva con l’infanta, dal gesto di raccogliere il piccolo di casa con lo scialle a portata di mano, più che con le copertine e poi accompagnava proprio tutta la vita delle donne: dalla sposa, al momento intimo, la preghiera, la festa, la serata mondana. Lo scialle, tra l’altro, rende eleganti tutte le donne, non si sa perché, quando una donna mette uno scialle non è mai sgraziata, cambia la postura, si illumina.

Come giudichi questa tua attività? Perché l’impressione che ne ricevo è che ha più un valore di espressione artistica che artigianale.

Diciamo che è il pensiero che accompagna tutti i pezzi, ma non necessariamente, perché siccome, per fortuna, non vivo quello stress della mancanza di ispirazione, il fatto di provare piacere nel lavorare i filati mi gratifica anche nel momento in cui devo comporre una cosa che non ha nessuna pretesa artistica, magari un pezzo che mi ha chiesto qualcuno o perché mi va di giocare con quel materiale e quindi mi sento sempre artigiana, vivo come artigiana, la mia mentalità è quella. Però, la composizione dei materiali anche in un oggetto apparentemente semplice come può essere quel triangolo. Alla fine ce l’hanno tutti una dedica, anche quelli che non hanno nella foggia nessuna pretesa d’arte.

Qual è stata la tua formazione precedente?

Io per ventun anni sono stata hair stylist, mi occupavo di moda capelli in maniera tecnica perché ho anche svolto la professione di consulente tecnica per una multinazionale del settore e ho avuto un mio salone per nove anni, sono stata collaboratrice di altri personaggi per il resto degli anni , ho fatto parte di gruppi artistici e mi sono occupata della creazione di linee moda. Le ho sempre portate avanti insieme queste passioni, quando facevo corsi per l’altra attività, contemporaneamente ne facevo altri per le mie passioni. Diciamo che ho dedicato molto tempo alla mia formazione, ma per passione, per le mie curiosità. Ho cambiato peluria, dal capello umano a quello di capra, pecora, yak e via dicendo.

Quali materiali utilizzi?

Tutti per me sono coerenti e gli riconosco delle qualità, dallo spago in poi, mi devono comunicare qualcosa. Ci sono dei materiali che io non adopero perché li trovo disonesti, nel senso che sono stati presentati in una maniera, secondo me, scorretta e quindi nei miei laboratori li prendo come esempio negativo, perché non manifestano nessuna bellezza per una questione tecnica e il loro costo è fuori da ogni regola. In questo momento mi sento di promuovere tantissimo il lavoro di una maestra  tintora abruzzese, Maria Ferri, che anche lei ha avuto trascorsi diversi, lei più coerenti coi suoi studi perché ha studiato ingegneria chimica. A un certo punto della sua vita ha deciso di non lavorare più per l’industria chimica, ma ha portato avanti queste sue conoscenze e amore per la tintura botanica, quindi è una persona che sa, intanto, come trattare le fibre, che per me è fondamentale. Sono tanti anni che mi occupo di questo ed è la prima volta che io noto una produzione così varia per tipologie di fibre e una collezione di colori, di stagione in stagione sempre più bella. Ma poi tutto, dalla lana sarda alla lana delle mie zone, la Val di Vara, la lana di pecora irta, piuttosto robusta, nata per calzini ma molto più bella di tante altre che sento promuovere, che, secondo me, sono ancora piuttosto grezze, mentre la nostra lana è molto semplice ma ha già un’elasticità, dei colori naturali molto interessanti, ma mi piace proprio tutto, devo dire. Mi appassionano i filati lituani, sono queste pallette con queste sfumature, si chiamano gradienti. È una lana molto rustica e antichissima, pare che dall’anno 1000 queste pecore non siano state più incrociate e hanno sviluppato delle caratteristiche particolari, interessanti. Fibre molto lunghe e ricce, quindi permettono di ottenere un filato che trattiene aria, perciò traspirante ed è un filato che punge abbastanza, ma la cosa bella è che quando si lava, a differenza di tanti altri, che con i lavaggi perdono volume, si restringono, perdono elasticità, brillantezza, questo filato si gonfia, le fibre si allargano e diventa sempre più bello, soprattutto indossarlo. I filati estoni si assomigliano abbastanza e danno veramente delle grandi soddisfazioni nel merletto che adesso si usa tantissimo. Quello è un filato islandese, si chiama “plotulopi”, è un filato che non viene ritorto, rimane così, con le fibre molto aperte, si lavora abbastanza serratamente e anche questo col lavaggio tende ad appannarsi e a gonfiarsi, non diventa duro. È molto leggero, profuma di buono, di paglia, di sapone.

Questo lavoro in realtà ti accompagna più come una passione.

Io non lo vivo come un lavoro, al momento non è un lavoro, diciamo. Non ho un punto fisso dove espongo, non ho un negozio dove li vendo. Ho una sorella che ha appena aperto una bottega temporanea in Sarzana, nel centro storico a La Spezia e ho lasciato dei pezzi, collaboro con lei, però  mi sto dedicando soprattutto alle mostre. Ho delle amiche fisse che amano collezionare i miei pezzi, a loro dedico un po’ del mio tempo, qualche golf, scialli, ma in questo momento sono concentrata su due mostre.

Non ti poni il problema di creare un’economia?

Al momento, no. Ho dato tanto, ho vissuto a contatto col pubblico vent’anni ed è dura, prima con l’altro mestiere, quando bisogna soprattutto interpretare così tanto le persone, averle sottomano a lungo, quindi assorbirne gli umori consuma come attività anche se l’ho fatto con passione. L’attività di bottega è stata anche quella interessante, ma anche lì è un problema, perché quando si ha una bottega e si deve produrre e si ha il pubblico, si lavora di notte. Diventava un problema la produzione, ma anche accontentare gli altri, perché ovviamente ci sono dei tempi che bisogna rispettare quando si prendono delle commissioni, quindi è stato veramente sfiancante. E ho pensato di prendermi un anno sabbatico, siamo al settimo. Avevo bisogno di smaltire un po’ di fatiche. Faccio mostre, a me piace raccontare tramite le mie mostre, infatti, non è che espongo, la mostra ha un suo significato, c’è un racconto.

La mostra perché ti è così congeniale?

Da quando mi battezzarono “narratrice tessile”. Per Pitti sono stata ospite di una Spa come artista ed è stato un grande onore per me, intanto, perché per me il Pitti era un miraggio, è un contenitore di filati che il pubblico non vedrà mai, non si sa dove quelle meraviglie vadano a finire. Essere stata invitata per quell’occasione a rappresentare un’azienda italiana che opera in questo mondo da sette generazioni mi ha fatto venire la febbre a quaranta.

Qual era l’azienda?

“Lana e Cardati Spa” che fa delle cose spettacolari, prodotti tracciabili, un’azienda bellissima che si trova a Cossato. Hanno visitato una mostra a Portovenere, altro bel traguardo, si sono innamorati di alcuni pezzi che erano degli arazzi su cornici antiche e mi chiesero degli inediti con dei filati che poi scelsi in azienda. Per la rassegna stampa ho letto la presentazione “narratrice tessile”, mi è piaciuta, mi ci sono riconosciuta, in effetti, è così che la vivo. Io racconto tramite i miei pezzi, un po’ di scritti ci sono che li accompagnano ed è per questo che è importante per me la mostra, perché è un luogo dove posso suonare. Per esempio, io ho suonato in banda, ma non mi andava di condividere la mia musica con le persone, mentre al telaio posso tranquillamente essere me stessa.

Suoni in sordina…

Neanche tanto in sordina, chiacchiero spesso, però la mostra è il mio luogo. A seconda del luogo che mi accoglie io mi esprimo.

Chi frequenta questa mostre? Sono addetti ai lavori?

Sono persone curiose, possono anche capitare degli addetti. Per esempio “Fibre sulle spalle delle donne” è una mostra itinerante, che ha già toccato tre luoghi, dove ogni volta che la ripresento, ci sono dei pezzi inediti, ma vi sono anche una o due dediche a delle donne che con quel luogo hanno avuto a che fare. È nata in una residenza artistica molto bella in Apricale, ponente ligure, alle spalle di Ventimiglia, e lì i frequentatori sono artisti, turisti, persone del paese, perché poi lo scialle incuriosisce e non mette in imbarazzo, come magari un quadro, una mostra pittorica crea spesso più distanze. Un racconto tessile avvicina di più, sembra meno distante, uno si sente libero di interpretare, non gli viene chiesta nessuna critica imbarazzante riguardo quello che vede.

E il motivo secondo te di questo dove risiede?

Perché, per esempio, è un materiale semplice, la lana ricorda oggetti familiari, il colore non imbarazza mai nessuno, la foggia dello scialle o anche la parola “arazzo” non crea un distacco, solleva proprio ricordi e accomuna più persone, sia la persona che cerca una novità di design, sia la persona che semplicemente vuole toccare un materiale così conosciuto. Lo scialle in particolare è una cosa vicina a tutti, anche nelle fogge più moderne.

Soprattutto c’è però una relazione col mondo femminile in questo.

Sì, diciamo di sì. Infatti parlo di donne, non parlo di uomini eccetto che per qualche materiale, per esempio, la lana islandese, ricorda più un mondo maschile di pescatori. Però in questo momento mi va di dedicare molto più tempo alle donne, ho dedicato anche dei pezzi a persone maschili. Per esempio, c’è un pezzo che è la rappresentazione tessile del Requiem tedesco di Brahms e in quello c’è anche uno scritto e il ritratto di un amico musicista, così come ci sono dei pezzi dedicati a Sergio Fregoso, a cui la mia città ha dedicato gli archivi fotografici, gli spazi multimediali. È stato un fotografo che ho conosciuto e lui l’ho raccontato con il nostro mare del Levante, però tendo di più verso le figure femminili.

Roma per te cosa ha rappresentato?

La luce. Io sono nel Lazio da 18 anni, come pendolare un po’ prima. Già 18 anni fa abbiamo avuto problemi di diluvi vari ed ero un po’ stanca di certo grigio.

E utilizzi dei materiali autoctoni? Roma era ricca di pascoli, tutto intorno alla città era un grande pascolo di pecore abruzzesi.

È una lana meravigliosa la lana abruzzese, ci sono due produttori molto importanti, “Lana d’Abruzzo” e “Aquilana”. Le amo entrambe, sono completamente differenti. Però, diciamo, che Roma non mi ha portato il materiale, anche perché le pecore del posto non sono tenute in maniera tale da ricavare del vello sano, sono pecore da latte e da carne. Nessuno per ora ha pensato a un recupero di queste fibre. Dal Lazio a me è arrivato il buonumore, che ha incontrato quello toscano, un approccio diverso con la vita, un bellissimo clima, soprattutto qui ai Castelli.

Fa molto freddo in inverno?

Io mi copro di lana. Le persone hanno perso l’abitudine di utilizzare le fibre giuste nelle varie stagioni, questa è un’altra mia missione, spiegare che la lana è importante, anche mettersi tre strati di cotone in inverno non protegge dal freddo e dall’umidità perché il cotone è una fibra igroscopica, non trattiene il calore corporeo, ti inzuppi e batti i denti.

C’è qualche episodio della tua vita che ha creato questo interesse?

Ma si mischiano un po’ tutti, perché io sentivo i racconti della mia bisnonna, con cui ho vissuto fino ai nove anni, per mia fortuna, ma non so proprio distinguere. La nonna toscana faceva delle cose bellissime ai ferri e con l’uncinetto tunisino, dava una mano all’economia domestica realizzando tailleur.

Qual è l’uncinetto tunisino?

È una tecnica bellissima, è un uncinetto più lungo di quello tradizionale, spesso con due uncini alle estremità. Permette di realizzare delle pezze piuttosto spesse con un effetto completamente diverso dall’uncinetto tradizionale e sembrano dei tessuti, sono proprio doppi. La bisnonna ricamava delle cose meravigliose, la nonna materna era sarta, maestra, tra l’altro, insegnava ed era specializzata nella confezione dell’intimo femminile, perché all’epoca non c’era il prêt-à-porter nell’intimo, e poi era maestra di taglio, cucito e ricamo. Quindi, viaggiando un po’ per tutte le case e tastando un po’ tutto, mi hanno stimolata un po’ tutti. Poi i racconti della bisnonna, della mamma della mia bisnonna che ha vissuto in questa bellissima parte della Val di Vara dove producevano la mezza lana e il jeans, sicuramente io da lì ho iniziato a sentir parlare di tessitura.

Ci sono dei tessuti che sono riferibili a una cultura specifica romana o laziale, tipi di tessiture o orditi?

L’unica cosa che posso pensare è il traforo, il bouquet era presente un po’ in tutti i corredi, un pizzo che ricorda le sfilature nel ricamo. E poi la costruzione dei tappeti, questo è avvenuto a Roma, presso una bellissima associazione culturale che non esiste più, occupava quel palazzetto meraviglioso che si trova all’angolo tra Via del Babuino e Via Margutta, è la “Casa di Nepi”, di tappeti moderni e antichi. Al secondo piano vi era la sede dell’associazione culturale “Il tappeto parlante”. Ho fatto due bellissimi corsi con Carmen Moreno, che è un’artista sudamerica che opera a Roma da tantissimi anni e ho frequentato dei corsi sulla storia del tappeto, però niente che avesse a che fare col territorio romano. Ho interpretato l’antica romana che tesse per il comune di Albano anni fa. Roma mi contagia nella sua emissione di colori. [Descrive un abito presente nel suo atelier] Questo abito racconta bene i colori di Roma che sono un po’ i riflessi delle facciate. Ci sono i fiori di Roma, le donne romane, erano piuttosto imponenti, vezzose, esagerate. È il ritratto della provincia di Roma ed è stato creato nei dieci giorni di esposizione al PalaParioli. Ho fatto parte di un percorso dedicato alle attività artistiche presenti sul territorio a suo tempo invitata dalla provincia di Roma. Con questi pezzi ho rappresentato le tecniche che uso e divulgo. Io amo interpretare i luoghi e le persone attraverso lo studio del colore e dei materiali, indipendentemente dalla tecnica. Io all’epoca abitavo a Castel Gandolfo, avevo bottega e studio lì. Partiamo dal cappello che è un basco, Castel Gandolfo è gemellata con Chateauneuf du Pape, che rappresenta la Francia ma anche la mia terra d’origine che è la Liguria. Il basco blu col pon pon rosso è il copricapo dei nostri pescatori. La rosa d’Irlanda, che in realtà fa parte del merletto a uncinetto e ad ago di varie zone del Lazio, e l’ho voluta inserire perché è il fiore del mio mese, io sono di maggio. Il primo nodo del macramè, anche lì ho legato il mio territorio di origine, in Liguria si lavora molto il macramè, un corpetto ad uncinetto, semplicissimo. Ho sfruttato le caratteristiche del materiale per renderlo più aderente, vestibile, è un materiale particolare che non è per niente elastico, è una viscosa molto cartacea ma con questa tecnica acquista elasticità e poi un pezzo tessuto dove ho ripreso i colori che si vedono in questa provincia un po’ durante tutto l’anno, dagli azzurri a questi colori molto caldi sia autunnali che estivi e me lo sono tenuto, però, perché è uno dei pezzi che mi segue nelle varie mostre.

Ci vuoi un po’ parlare del tuo strumento musicale?

Uso un telaio a pettine riccio, non mi servono i pedali, sarebbero di impiccio soprattutto per me che ho un gesto abbastanza svelto nel comporre. È rosso perché me lo sono personalizzato, è un telaio che ne ha viste di tutti i colori perché l’ho portato ovunque. Secondo me, esporre senza far vedere lo strumento non ha molto senso. Mentre quello smontato dietro è il mio telaio verticale per arazzi e tappeti. Quello che cerco di comunicare del tessere è la libertà del gesto, il fatto di operare indipendentemente dall’uso di un telaio, si può tessere su tantissime strutture quando si ha la possibilità di tendere dei fili, un ordito, quello è un telaio.

Ha influito su di te il fatto che la tessitura sia considerata un’arte femminile?

Dipende dai periodi storici, perché nel periodo di grande produzione, fino alla seconda metà dell’800, è stato un mestiere maschile pesantissimo. Gli uomini dormivano sopra al proprio telaio, si creava una sorta di baldacchino. È un’attività che si porta avanti per tanti ore, io faccio 10-12 ore di seguito quando voglio vedere finito un pezzo, è faticoso. Non è stato quello, non mi sono proprio posta il problema, attività femminile o meno, non la vedo neanche così. Infatti, è un attrezzo che non imbarazza i maschi, nell’attività didattica cerco di far avvicinare i maschi all’uso dell’uncinetto o dei ferri con l’uso dei telai chiodati. I bambini, per esempio, al ricamo li avevo avvicinati creando dei ritmi sui cappelli preforati. Quando avevano terminato dei motivi che avevano realizzato spontaneamente, ho spiegato loro che avevano realizzato un punto erba e punto croce, cioè un ricamo.

La didattica per te rappresenta un momento particolare?

Sì, mi piace tantissimo. Intanto, perché ho questa opportunità di far conoscere i materiali e poi penso che chi si dedica a fare difficilmente si dedica a disfare. Vuol dire, intanto, far apprezzare ai bambini il proprio tempo, alle persone che hanno dei disagi ugualmente. Ci sono delle tecniche semplici, strumenti semplici, si realizzano facilmente degli oggetti che hanno un loro perché, riconoscibili, quindi aiuta ad acquistare sicurezza e si prova felicità. Anche le persone più in difficoltà, a Castel Gandolfo ne ho viste tante, nella mia bottega è arrivato di tutto, ragazzi in terapia presso il centro di recupero per tossicodipendenti, ex detenuti e poi c’è “La grande montagna” dove ci sono persone che hanno disagi mentali e alcuni di loro si sono avvicinati spontaneamente. Con mia figlia che era bambina li abbiamo accolti e ho sempre visto una sorta di ripresa, di gioia per il fatto di riuscire a realizzare delle cose concrete, questo mi ha gratificato tanto ed è una cosa che porto avanti.

Questo tipo di attività è una terapia?

Tutto quello che fa star bene è una terapia. L’attività manuale gratifica, dà sicurezza, stacca la mente da dei chiodi fissi, da tutto quello che magari può agitare e ci si concentra nell’azione. Nelle persone che si sono avvicinate liberamente ho proprio visto man mano il sorriso sul viso e parte del mio tempo l’ho sempre dedicato a questo gratuitamente.

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