“… la capacità d’espressione non sarà a lungo influenzata dal solo mezzo tecnologico, come sempre è stato la voglia di comunicare saprà trovare la propria strada a prescindere dagli strumenti messi a disposizione”
Marco Martini, classe 1958, diplomato geometra – “studi universitari ‘psicologia dell’età evolutiva’ interrotti per mancanza di pecunia” – non si concede molto a parole ma parlano i suoi scatti, in particolare nella nudità del bianco e nero. Marco Martini non rincorre situazioni infuocate e luoghi esotici per catturare aspetti insoliti della vita, ma predilige raccontare la gamma delle espressioni e delle emozioni umane colte nell’unicità di un dato momento. Tranquillo e paziente, assorto, si predispone a cristallizzare la suggestione raccolta, tutt’uno con il suo fidato strumento. Ed è questo il suo modo prediletto di comunicare (“mi piace il contatto con la gente”) pur non rifuggendo la chiacchierata informale su argomenti di comune interesse. A condizione, ci è sembrato di capire, che non si divaghi invano.
intervista a Marco Martini
Quando si appassiona alla fotografia, ricorda qualche episodio determinante?
Non c’è un incontro specifico o un motivo particolare, ricordo solo che quand’ero piccolo, intorno ai 6-8 anni, un emigrato in America tornò e a noi ragazzini in strada ci fece poggiare l’occhio nel mirino della reflex che portava al collo. Ci parve una magia, non ho mai dimenticato quel momento per quanto ininfluente possa apparire.
In fondo in fondo si è forse risaliti all’incontro scatenante. Quando inizia a scattare per professione? Partendo da quali basi e con quali obiettivi?
Dopo un lungo periodo di apprendistato iniziato da autodidatta negli anni ‘70/‘80, facendo pratica presso fotografi e stampatori con molta esperienza, ho aperto un mio studio/laboratorio, prima fornendo solo il servizio di sviluppo e stampa in bianco e nero a professionisti del settore e in seguito adibendo un garage a studio fotografico.
Un percorso rapido. Potrebbe essere più dettagliato?
Esattamente non ricordo, ma grosso modo dal 1978 al 1982 ho seguito un fotografo di Roma che risiedeva nelle campagne veliterne, Giorgio Perseu; aveva una settantina di anni e morì pochi anni dopo, e mi ha insegnato a pensare prima di fare e il giusto approccio in camera oscura. Nei primi anni ‘80 ho fatto apprendistato presso un fotografo a Roma in zona San Giovanni – Armando Lisi, anziano e senza figli, una brava persona molto competente e schiva – che faceva un po’ di tutto: ritratti in studio, cerimonie e altro, ma lo faceva bene. Ho incontrato altre persone da cui ho imparato ma a tempo perso, senza impegno. Cercavo una mia strada, cosa che penso di stare ancora cercando. Agli inizi del ‘90 m’iscrissi a un corso a Velletri, promosso da un fantomatico professionista dal curriculum invidiabile. Pensavo di potere apprendere qualcosa di nuovo ma il supposto professionista era molto supponente e poco professionista, il corso era adatto a principianti. Rimasi deluso non tanto dalla sòla del corso quanto dal toccare con mano quanta anarchica sciatteria sia presente nel settore.
Forte delle sue esperienze, bene o male comunque formative, apre il suo studio fotografico. Come si propone per attirare clientela, disponibile a ogni tipo di servizio fotografico o attenendosi a quelli di sua preferenza, se ne ha? L’attività prende subito l’avvio o incontra difficoltà di ordine pratico?
Sì, negli anni ‘90 parto come fotografo imprenditore artigiano. Le difficoltà erano date dal fatto che non potevo permettermi dipendenti, apprendisti, impiegati e dovere fare tutto da solo era una gran fatica, oltre che, per forza di cose, limitante. Non arrivando da una tradizione lavorativa non ero conosciuto in zona e per avere maggiore visibilità avrei dovuto investire di più in pubbliche relazioni, cosa che mi è sempre stata difficile per carattere. Non sono portato all’autopromozione e non sono mai stato disposto ad accettare tutto e tutti pur di fare incasso. Altre difficoltà erano rappresentate dal fatto che – per esempio – se andavo in giro a presentarmi alle aziende non potevo essere in studio, se stampavo non potevo fare foto e così via.
Potendo scegliere, a quale particolare genere fotografico e a che tipo di servizi avrebbe voluto dedicarsi? Che cosa invece avrebbe volentieri evitato di fare?
Certo, potendo scegliere avrei voluto occuparmi solo di ritrattistica per privati, servizi per cataloghi nel settore abbigliamento, pelletteria et similia, servizi stampa Fine Art per conto terzi. Senza dovermi occupare del sottobosco popolato da aspiranti miss e agenti di spettacolo d’infimo livello, anche se quelli erano i clienti che mi cercavano, ma vivendo in un paese di provincia non è che fosse stato presente chissà quale mercato. In ogni caso sono riuscito a produrre lavori per piccole aziende nei settori più vari: produttori di candele di cera, prodotti in ceramica per l’edilizia, negozi di abbigliamento, articoli sportivi e altro.
Qualche suo lavoro tra i più soddisfacenti?
Il lavoro “in teoria” più qualificante, sicuramente meglio pagato, furono fotografie delle parti architettoniche del Vittoriano commissionate da una delle più grandi agenzie di Roma, non ricordo il nome, in occasione della festa della Repubblica per conto del Quirinale. Le foto furono montate su enormi pannelli posti in un allestimento davanti ad altro monumento, ma neppure di questo ricordo il nome.
Per quali vie le giunse la commissione?
Il lavoro mi fu proposto tramite un ragazzo che ogni tanto mi faceva da assistente e che aveva conoscenze nell’agenzia. A quanto pare erano arrivati a pochi giorni dall’evento e le foto commissionate ai più blasonati fotografi non si erano rivelate utilizzabili. In una giornata andai, feci le foto in formato 6×6 su pellicola diapositiva Velvia, le portai in un rinomato laboratorio di Roma il cui proprietario era un amico – che sbagliò il trattamento per cui le pellicole presentavano una dominante magenta che non avrebbero dovuto avere, cosa comunque facilmente correggibile in fase di stampa – quindi portai le foto in agenzia, firmai il contratto, consegnai i due rulli e fui pagato. Il lavoro fu apprezzato e andò bene ma da quel momento non ebbi più informazioni sull’utilizzo delle foto; che non mi avrebbero contattato per altri lavori se non per cause speciali lo tenevo già in conto, la mia struttura era troppo piccola e distante da Roma per convenirgli e in ogni caso visto l’urgenza richiesta per le foto vendute avevo chiesto un prezzo decisamente elevato.
La sua attività artigianale le garantiva una tranquillità economica? Le è capitato di dover sopperire in qualche modo ad una carenza di richieste?
Per incrementare il fatturato annuo durante un periodo abbastanza breve ho offerto anche servizi di cerimonie e cose simili. L’attività era da artigiano così come inquadrato nella licenza d’uso, non ho mai fatto commercio.
Che intende esattamente? Potrebbe fare un accenno sul diritto d’autore?
Per non fare commercio intendo dire che non vendevo prodotti come macchine fotografiche, obiettivi, cornici e altro. Il diritto d’autore è un argomento complesso, in ogni caso è presente in tutte le opere che l’autore produce, nel mio caso le foto, che possono essere vendute o meno, questo dipende dal tipo di accordi e contratti che si fanno con chi commissiona il lavoro. Per le agenzie in genere io vendevo tutto consegnando il lavoro su pellicola, in tutti gli altri casi invece no, vendevo solo l’uso per la pubblicazione.
Che cosa comporta lavorare ‘in proprio’?
Non avevo nessun dipendente ma avevo passione per le cose che facevo e non mi pesavano le lunghe ore di lavoro chiuso in un laboratorio dopo avere passato la giornata in studio, così come non mi pesava la rinuncia a giornate di riposo. I guadagni erano discreti potendo contare su una clientela numericamente di poco conto ma che non mi faceva mai mancare il necessario per tirare avanti la carretta. Questo fino alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo.
Che cosa cambia in quegli anni?
Il settore ha subito un’accelerazione verso il cambiamento della tecnologia d’uso, il lavoro da artigiano era sempre meno richiesto e gli investimenti sulle nuove tecnologie erano troppo onerosi per chi come me non aveva il becco di un quattrino.
Se lei oggi è qui a raccontarlo, come professionista attivo e riconosciuto, qualcosa allora le sarà giunto in soccorso…
In quel periodo mi è stata offerta la possibilità di dirigere laboratori di sviluppo e stampa per conto della FIN Color Spa nella regione Lombardia con escursioni in Veneto e Abruzzo. L’azienda si occupava di fornire servizi di sviluppo e stampa ai fotografi di tutta Italia, era la più grande per fatturato e numero dipendenti, ed è fallita nei primi anni 2000, penso intorno al 2005. Per qualche anno le cose sono andate decentemente fino a che anche la più grande società di servizi di stampa italiana ha ceduto sotto l’avanzata della diffusione del digitale.
Altra storia, altro modo di guardare e ‘raccontare’ il mondo. Lei come ha vissuto quella fase di trapasso? Ha mai avuto la tentazione di cambiare mestiere?
Per qualche anno mi sono barcamenato facendo fotografie per cataloghi di abbigliamento per conto dell’Image Co. – con sede legale a San Marino – per piccole agenzie di pubblicità, site in provincia di Bergamo (in quel momento risiedevo vicino Bergamo dopo avere abitato a Milano), mentre anche questo settore subiva una rivoluzione. A quel punto ho pensato di avere finito con tutto quello che riguardava questo settore e mi sono dedicato ad altro. Ho lavorato come colorista nella SETRA Srl sita a Trezzo sull’Adda, si occupava di serigrafia con macchine a sei stazioni di grande formato, colorava e applicava disegni su tessuto per grandi marchi: Prada, La Perla, Mariner, Dainese, Adidas e molti altri, e ho fatto il receptionist in alberghi di 3 e 4 stelle nel milanese e in provincia di Roma per portare la pagnotta a casa, non pensavo si sarebbero più presentate possibilità di occuparmi di fotografia, né direttamente né indirettamente.
Smentito dai fatti, se permette…
Come già accaduto in passato, la vita va oltre ogni possibile capacità d’immaginazione e dopo una decina di anni mi sono ritrovato ancora una volta con la macchina fotografica tra le mani. Ho dovuto reimparare tutto, il vecchio modo di lavorare era del tutto superato e mi trovavo immerso tra pixel, dischi di memoria, software per la stampa e via discorrendo.
E comunque lei disponeva di un bel bagaglio di conoscenze, tra una cosa e l’altra.
Devo dire che le conoscenze acquisite in precedenza sono state di grandissimo aiuto per poter capire con una certa velocità il mondo nuovo con il quale avevo a che fare.
Dinamicità ed efficienza tecnologica bastarono per reggere l’impatto con le innovazioni a catena? Lei personalmente come cercò di adeguarsi al nuovo mercato?
Per lavorare in modo decente, così com’era prima, c’era bisogno di una buona capacità di spesa e così ho dovuto di nuovo affrontare questo mondo in modo anomalo e del tutto personale, nel frattempo esigenze di tipo extra lavorativo m’impedivano di dedicarmi al lavoro full time. Avendo il tempo necessario a disposizione, per sopravvivere nel settore non basta solo “fare” fotografie ma bisogna darsi da fare con workshop, corsi didattici, produzione di lavori in proprio, internet.
Lei pratica – tutte o in parte – queste attività di supporto?
In questo momento mi barcameno tra l’insegnamento (promuovo corsi di primo livello dedicati ai principianti e corsi di specializzazione in studio per fotografi più evoluti), la ritrattistica per privati (perché mi piace il contatto con la gente) e i reportage sulle attività concertistiche di alcune associazioni (Colle Ionci, AMRoC – Accademia di alto perfezionamento Musicale Roma Castelli) che si occupano di questo settore.
Il lavoro di oggi rispetto al lavoro artigianale/artistico d’un tempo, per quanto recente, prima della rivoluzione digitale?
Lavorare oggi richiede altre competenze, contano molto i mezzi di comunicazione sul web, lavori pagati dagli editori della carta stampata non vengono più offerti, fare concorrenza alle grandi agenzie pubblicitarie senza mezzi a disposizione non è nemmeno lontanamente immaginabile e nel settore privatistico si deve lottare contro una moltitudine di pseudo fotografi che offrono i loro servizi a prezzi ridicoli, ridicoli come la qualità dei servizi che offrono. Questo è lo scotto più grande derivante dalla diffusione di massa della tecnologia digitale, tutti pensano di essere in grado di “fare fotografia” data la facilità con cui si accede al nuovo mezzo fotografico, non è richiesta più alcuna competenza specifica, per fare uscire un’immagine gradevole da un supporto digitale basta spingere un pulsante e un’immagine in qualche modo esce fuori. Prima non era così, senza competenze di gestione della tecnica fotografica e la conoscenza delle basi di chimica, un profano non avrebbe mai potuto produrre un’immagine decente su carta.
Immagine e fotografia artistica: quale diversa resa?
Ovviamente immagine e fotografia non sono la stessa cosa, un’immagine è semplicemente la riproduzione dell’esistente senza nessun tipo di aggiunta interpretativa, una fotografia è esattamente l’opposto. Per fare le cose seriamente c’è bisogno di conoscenze tecniche e intellettuali, ma in Italia, oggi come ieri, manca una legge che regoli il settore mancando una vera cultura dello stesso.
Vorrebbe approfondire questa sua ultima considerazione? Come pensa si possa incrementare la cultura del settore Fotografia? Indicazioni e suggerimenti per quanti volessero intraprendere tale percorso professionale?
Non esiste nessun diploma o laurea, certificati dallo Stato, per poter aprire partita IVA. C’è assoluta anarchia, ognuno può permettersi di proporsi con la qualifica da fotografo o stampatore senza avere bisogno di dimostrare alcuna conoscenza della materia di cui si parla. Per sviluppare la conoscenza e quindi la cultura del settore, si dovrebbero istituire due percorsi formativi: uno che porti alla professione e l’altro alla capacità di lettura delle immagini. Immagini che vengono usate per venderci prodotti, modelli educativi, culturali e politici. Per chi volesse praticare la professione, dovrebbero essere creati dei corsi d’indirizzo nei licei artistici, dove alle materie classiche si dovrebbero affiancare materie formative come storia dell’arte, storia e tecniche della comunicazione, sociologia, psicologia, storia della fotografia e laboratori di antiche e moderne tecniche di stampa e di ripresa, e poi corsi universitari di almeno tre anni in cui approfondire gli argomenti trattati e ampliare quelli specifici sulla comunicazione. Senza un attestato di laurea non si dovrebbe poter svolgere la professione, né più né meno come accade per qualsiasi altro professionista, architetto, avvocato, medico ecc. L’unico suggerimento che posso dare a chi volesse lavorare nel settore è cercare di formarsi in una scuola di alto livello e poi cercare dentro di sé la chiave di lettura di cosa si vuole rappresentare.
Capitolo chiuso per lo scatto magico e autorevole?
Penso che la buriana prima o poi passerà, il mercato si assesterà, la gente rimbambita dalla quotidiana visione di miliardi di insulse immagini, tutte uguali, che passano davanti ai loro occhi su uno schermo, cercherà altro, vorrà vedere qualcosa di diverso, almeno spero.
In attesa, qualche lieta notizia odierna e qualche spiraglio sulle possibilità future?
Nel frattempo il settore della fotografia chimica si è creato una propria nicchia, nella fotografia d’arte dedicata alle esposizioni in gallerie d’arte et similia. Qualche anno fa un professionista che si occupa del settore in campo internazionale mi ha fatto notare che in alcune città europee, Berlino, Londra ecc. erano richiesti esperti nel settore della stampa d’arte, ma l’età per le avventure è passata da un pezzo, prima o poi anche questa nazione da terzo mondo evolverà, forse. Comunque la capacità d’espressione non sarà a lungo influenzata dal solo mezzo tecnologico, come sempre è stato la voglia di comunicare saprà trovare la propria strada a prescindere dagli strumenti messi a disposizione.
Quindi buone prospettive per il settore della stampa d’arte. Come pensa si possa far rientro ad una capacità espressiva mossa dall’interno e non artefatta?
La tecnologia è una cosa che cambia in continuazione e le tecniche d’uso seguono il percorso. Tanto per dire, a metà dell‘800 tutti davano per spacciata la pittura perché convinti che il mezzo fotografico appena scoperto in breve tempo l’avrebbe sostituita. Ma si potrebbe parlare dei materiali usati – pietre, fango, creta, legno, ceramiche, metalli, plastica e altro –, strumenti e tecniche, elementi base dei colori eccetera, che nei secoli hanno rivoluzionato il linguaggio utilizzato per l’espressione artistica. Niente è per sempre, anche se non diamo per scontata questa cosa, tutto si trasforma e a tutto ci si adatta. Ogni epoca ha i suoi stili e i suoi materiali. La cultura segue il percorso dello sviluppo tecnologico ed è naturale che sia così.
intervista a cura di Maria Lanciotti